Sebbene la presenza umana sia accuratamente evitata nell’immagine di architetture industriali della serie BLAST (1), ciò non significa che il protagonista di quanto vi si narra siano le inerti cose ritratte. Tutt’altro: sono proprio loro, le cose, anche nei dettagli formalmente più estremi, a parlarci dell’azione dell’uomo e dei sentimenti esperiti durante il transito in quel luogo. Oggetti come un casco di protezione, un segnale di attenzione, un armadietto od anche un residuo di macchina qualunque evocano, senza nominarla, la presenza di vita operaia, con tutto il fardello di emozioni individuali e collettive che si porta appresso. Per condizione, per storia. In ultima analisi, per definizione. E ciò basta, a noi, per giustificare la motivazione a darne testimonianza. Ma c’è dell’altro: il taglio spesso frontale dell’inquadratura diventa dato di stile, topos privilegiato di una visione certamente influenzata dalla mediazione culturale - esercitata con discrezione nell’arco di un lungo tempo biografico - dalla Storia dell’Arte. Quella di schiacciare il soggetto, appiattendolo sulla superficie bidimensionale del supporto non è altro, dunque, che un’inclinazione poietica derivata dalle affinità compositive con la Pittura e col progetto d’Architettura, cui spesso ci si compiace di somigliare. Di fotografico rimane tutto il resto, che non è poco. La tecnica innanzitutto, tanto analogica che digitale. La post-produzione numerica, per quanto consente di adattare alle proprie esigenze espressive i vincoli ottico-compositivi dell’azione di ripresa. S’intravede, in questo lavoro di mappatura visuale dell’universo industriale in disuso, il tentativo di rendere esteticamente gradevole, se non bello, il soggetto in rovina, nella consapevolezza, però, del rischio di manifestare una certa ambiguità ideologica durante la fase ermeneutica di attribuzione di senso al prodotto fotografico. Queste ed altre parole intendono darne conto. Nel ribadire la predilezione per il soggetto-oggetto, l’attenzione della nostra ricerca visiva si concentra, con prevalenza, sui luoghi più frequentati della metropoli diffusa (2), gli sprawls (3). Qui, assumendo la fortunata definizione di origine antropologica - ormai parte della vulgata corrente - cioè nei cosidddetti “non luoghi” (4), si concentra quanto di più maledettamente indispensabile a descrivere l’umana condizione contemporanea. Intendiamo proprio dire che la tragedia dell’essere si consuma proprio qui, tra gli scaffali di un ipermercato, in una stazione ferroviaria, in una zona industriale, in un motel, in un autogrill, in una stazione di servizio e via dicendo. Abbiamo citato esclusivamente luoghi pubblici. Sì, perché quelli privati, per quanto spiati possano essere, sono raggiungibili dall’occhio del fotografo solo per via di complicità o di simulazione. Poi, quando succede, è al prezzo di una violenza che noi non possiamo condividere. Basta il mezzo televisivo a documentare, in quantità industriale peraltro, l’orrore segreto delle vicende individuali. A chi, come noi, utilizza il mezzo fotografico per interpretare la realtà, non resta che indirizzare lo sguardo sugli uomini per via metonimica. Fissare una scarpa slacciata per dichiarare la morte del soggetto. Evocare senza nominare, dunque. Se non altro, per non uccidere (5) una seconda volta i propri testimoni. Insomma, dobbiamo al linguaggio fotografico, alla sua resa immediata l’occasione per tradurre in immagine i percetti (6) di una visione parziale, personale ma assolutamente sincera e disincantata. La nostra.
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(3) Marc Augè, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, 1993
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(3) Marc Augè, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, 1993
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